giovedì 22 agosto 2013

 Pensando a Schopenhauer che mi fa l'occhiolino dalla copertina di un libro, inizio a riflettere sul mondo in cui viviamo e a come lo pensiamo ed insieme a ciò, al più genuino significato dell'evoluzione della nostra vita a contatto con gli altri e con noi stessi.




 Un mondo purtroppo martoriato da un uomo che consuma non solo più di quello che egli stesso produce, ma pure in eccesso rispetto a ciò che questa povera Terra può offrire. Un mondo appunto che spesso ci figuriamo non solo per quel che appare, ma pure per quello che si accompagna alla nostra vita di viventi, forse un po' più progrediti rispetto ad altri, ma comunque sempre esseri umani con le proprie angosce e pensieri.
E così noi uomini viviamo spesso immaginandoci un mondo in cui gioire e vivere intensamente in una realtà che purtroppo rema sempre in senso contrario ricordandoci i doveri, il mondo esterno, gli altri. Un confronto continuo insomma in cui ci misuriamo con il prossimo e spesso sacrifichiamo individualità, sogni e proiezioni all'esterno di ciò che vorremmo fare e di come vorremmo godere di questa vita, ma che purtroppo la vita ci nega, la concatenazione di eventi esterni che ci ostacolano e ci impediscono di vedere al di là della cortina fumogena di un immobilismo generalizzato che attribuiamo ai difetti culturali della nostra società, alla politica, al fatto che non troviamo un angolino in cui riflettere e rilassarci a contatto con la Natura e con chi ci vuole bene e con cui scambiare i nostri pensieri, i nostri dubbi e le nostra valutazioni.
Questa vuole essere la premessa per delineare un terreno di confronto con eventuali commentatori su diverse direttrici:

1) Il mondo così com'è fisicamente parlando, senza indugiare certo nel cosmo, ma limitandolo per ora al nostro pianeta e le risorse naturali.

2) L'uomo, microcosmo in quell'altro macrocosmo, non solo fatto di membra e nemmeno di cervello, ma di pensiero, e sinora nessuno ha ancora capito come possa scaturire dal primo per immaginarsi il mondo come seconda istanza.

3) La società fatta di più uomini che si organizzano per convivere, fondano città, nazioni, scrivono leggi e su di esse costruiscono architetture governative su cui poggiare le loro aspirazioni democratiche e i loro sogni di civiltà future.

4)I dubbi che costantemente l'uomo nutre, ossia se tutto ciò che gli appare sia reale o nasconda qualcos'altro che ancora non può conoscere e che è consapevole che non conoscerà mai, la filosofia, la religione.


 Il primo punto quindi non può che riguardare il rapporto tra l'uomo e la Natura, come ad esempio una contrada di campagna, una zona montuosa, ma pure un giardino all'interno di antichi edifici, nel fazzoletto verde di casa sua, gli possano dare quella tranquillità d'animo, quella serenità che gli permette di potersi sentire in pace con sé stesso e con gli altri. A tal proposito mi vengono in mente certi giardini Orientali che già a suo tempo influenzarono un certo design inglese, scenografie queste ben diverse dal classico giardino prospettico all'italiana. I giardini cinesi o giapponesi, con i loro laghetti, i ruscelli, l'atmosfera irregolare e quasi selvatica della vegetazione, sembrano riportare l'uomo non tanto alla Natura ma a ciò che la contorna, all'infinitamente grande e piccola cornice che fa da confine al vuoto del tutto, quell'infinitamente piccolo o grande che da sempre ci sfugge, ma pure ci affascina, e intanto che ci concentriamo su di esso ci sentiamo in armonia con il mondo e per questo distaccati da quella materialità che sovente ci incatena e ci fa soffrire.

Il secondo punto riguarda l'uomo, il quale sforzandosi di esistere, vive nel morire giorno per giorno, nell'eterna esplicazione di un sé che diparte da ciò che vi è di più intimo, quell'essenza, quella volontà che sforzandosi di esistere, lo pensa, questo mondo, in un'incredibile unione di anima e corpo, proiettando sé stesso nel mondo stesso e interiorizzandolo. Oggi impigliati come siamo nella società tecnologica che ci sovrasta, resasi oramai un organismo quasi indipendente da noi stessi, automatica, robotica, in essa abbiamo esteso la nostra sensibilità, la nostra conoscenza tridimensionale, e se un tempo l'uomo greco immolava il defunto sulla pira in onore di déi nemmeno tanto lontani, che quasi emergevano dalla cima di un monte o dal cuore e dal silenzio di una foresta, ora che tutto ciò sembra svanito nel nulla mentre telescopi osservano corpi celesti lontani, l'ignoto è dentro di noi e probabilmente soffriamo molto per questo. Fatichiamo ad incontrare in cielo colui o coloro che un tempo davano significato all'esistenza e vi suppliamo con le nostre religioni.


Il terzo punto riguarda la società degli uomini, la loro politica, i loro scambi, ma non solo in denaro, ma di linguaggio, di significati, di cultura. In fondo la storia si dipana così. C'è stato chi ha asserito che la storia è frutto della produzione degli uomini, o chi al contrario si è immaginato noi uomini come piccoli esseri sulle spalle di giganti che già in parte quella storia l'avevano scritta per noi, a noi in questo caso non resterebbe che seguirne gli insegnamenti. Un uomo insomma costantemente in bilico tra ciò che gli è stato insegnato e che è divenuto faro, luce, idee direbbe Platone, da seguire, e chi al contrario quelle idee ha deciso di rifiutarle per costruirne di nuove. Un po' come i significati delle parole, possiamo dire la parola "pietra" e chiederci se ormai essa non sia nient'altro che un segno stabilito dalla stragrande maggioranza degli uomini per designare il ben conosciuto oggetto, o se un uomo vissuto in un lontano passato, vedendo quell'oggetto, avesse espresso qualcosa che poi con il tempo è venuto ad acquisire il suono di quella parola.
E se parliamo di società, di uomini, non possiamo che parlare della loro politica dei valori, dell'etica e come essi oggi vi si conducono, per esempio qui in Italia e come il linguaggio politico abbia attraversato e attraversi tutt'ora una fase critica che si riallaccia a quello che dicevo prima sui significati delle parole.




Il quarto è il classico dubbio filosofico che non è relativismo in quanto non si mette in discussione che delle verità esistano, ma piuttosto che possano esistere giudizi assoluti che un giorno non possano venire discussi e smontati. In fondo le più grandi scoperte scientifiche nel campo ad esempio della fisica come la relatività Einsteiniana, che comunque oggi ha riscontrato più che altro conferme, un giorno potrebbero venir superate, ma pure giudizi di natura politica, per cui un dato sistema economico è per esempio infallibile, ricordandoci che trattandosi pure in questo caso di un libero scambio di risorse tra uomini costantemente in contatto tra loro, uomini che odiano isolarsi e piuttosto amano collaborare, ebbene quei meccanismi non sono per nulla immutabili, pensiamo ad esempio al modo in cui la tecnologia si è da tempo inserita in tutto questo, alla virtualità del valore di scambio sempre più lontano da quello d'uso che un uomo antico riteneva vi fosse in una rudimentale picozza. Oggi quel valore viaggia a suon di bit al secondo e troppo spesso per scambiarlo non basterebbe il valore di tre dei nostri pianeti.

 Quindi riepilogando intendo parlare in questo blog di uomo-mondo-società e filosofia provando a mettere in luce un oggetto, una configurazione di pensiero partendo da diverse prospettive, cercando di dimostrare tra le altre cose come la Filosofia più che una scienza possa essere uno sguardo da ciò che tecnicamente, secondo il linguaggio filosofico, viene chiamato ente, e come in fondo ciascuno di questi enti alla fine diano la possibilità di uno sguardo ulteriore, uno sguardo che vorrebbe riportare al centro del mondo un uomo, è vero non più rinascimentale, ma riportarlo indietro dalla sconfinata ampiezza degli abissi siderali che contornano il nostro, di mondo, purtroppo non più al centro di quegli abissi.
Ma cosa possiamo intendere per Natura? Come può coglierla la nostra sensibilità e in che misura?
Kant, nella sua “Critica della capacità di giudizio”, parlava di sublime aritmetico e dinamico descrivendo come di fronte a certi fenomeni come uragani, tempeste marine, spettacolari nella loro maestosità terrificante, non potessero essere abbracciati sensibilmente dall'immaginazione, ponendo in un certo senso un limite alla capacità della sensibilità umana di comprendere queste manifestazioni naturali.




Eppure dopo l'illuminismo, che vedeva nella razionalità del pensiero che ancor oggi possiamo scorgere in taluni giardini di ville settecentesche, con le loro prospettive di linee e punti che di fatto ci parlano di astratte metafisiche; con il Romanticismo si è inteso oltrepassare questi limiti e in un certo senso dando spazio non solo alla razionalità, ma pure alle passioni umane superando quella che potremmo chiamare la separazione tra mente e corpo, yin e yang nella cultura Orientale.
Se per esempio osserviamo la figura del taijitu, vediamo come le due compagini non siano separate nettamente ma mostrino dei piccoli cerchietti che ne evidenziano una certa dinamicità.
Se pensiamo alla mente o al pensiero come quel vuoto che è all'interno di ogni atomo, tra nucleo ed elettrone, ma che pure universalmente sembra contenere tutto, ebbene ci accorgiamo come il rapporto tra queste due componenti non possa essere che l'una funzionale all'altra in una dialettica, in una dinamica che non solo spazialmente, ma pure temporalmente evidenzia una continua compenetrazione, per fare un esempio, il vuoto di un vaso non può che essere funzionale al suo riempimento, come il pieno al suo svuotamento.
Se prendiamo un'opera d'arte cinese, o un giardino, vediamo come l'estetica che ne deriva e che costituisce l'oggetto del nostro vedere, non possa che comportare, secondo quel tipo di filosofia Orientale, l'osservare non solo con la mente ma pure con il corpo.
Il vuoto non viene concepito come quel nulla da cui ha avuto origine il tutto, ma un qualcosa di inscindibile da tutto ciò che è pieno e come non possano essere considerabili né separatamente, né tanto meno staticamente.
La spontaneità di uno sguardo di questo tipo in un giardino giapponese, che fa dell'asimmetria il suo verbo, equilibra dinamicamente la mente e il corpo in un'armonia di veduta, che concentrandosi e non giudicando solo concettualmente il bello, lo interiorizza e ne gode pure corporalmente. Una visione antimetafisica, che in un certo senso non vuole cogliere un mondo fatto di bellezza ideale e astratta che possiamo considerare in un certo senso l'ombra del nostro mondo, un mondo dietro al mondo, ma un mondo reale di bellezza pragmatica da cogliere con tutto il nostro "sé", in un mondo unico quindi, di pieni e vuoti ma sempre di uno si tratta, l'uomo unito al suo stesso mondo.



 



 Quel che intendo dire è che soprattutto oggi ci troviamo di fronte ad un uomo che è stufo di vivere nella classica tridimensionalità cercando una dimensione ulteriore, quella della propria interiorità, e come costui si renda ormai sempre più conto di venire costantemente sacrificato alla razionalità di un'esteriorità, che nelle sue mire pretende di soppesare e misurare il mondo, di sostituirlo con una sorta di controfigura assolutamente artificiale, un po' come l'uomo sogna di riprodurre sé stesso, creare un uomo cyborg, un uomo robot e da figlio farsi padre e nuovo dio creatore.
Eppure oggi l'uomo sente sempre più lontana quella Natura, se è vero che la cultura, la religione, la filosofia Orientale, indiana, cinese o giapponese hanno compreso come l'uomo debba sforzarsi di ritrovare il proprio baricentro, un uomo quello Occidentale moderno che è sperso in quella che sempre più risulta essere la proiezione di un fenomeno esterno che come tale viene ad assumere la forma di un mondo ulteriore che vela l'angoscia umana.
Un uomo quello Occidentale che pensa di poter conoscere molte cose utilizzando oggetti di una tecnica non pensata e creata però da tutti gli uomini, ma comunque disponibile per chi se lo può permettere, ebbene l'uomo Occidentale odierno trova rifugio proprio in quella metafisica, in quel cielo davvero vuoto dove è venuta a relegarsi la sua anima, il proprio sé, del tutto disgiunto da un corpo che si è fatto meccanico.
Un uomo quindi che fatica a cogliere il nesso tra passioni e cervello tanto è teso a reprimerle quelle passioni.

E qui veniamo al terzo punto, come l'uomo incontra gli altri uomini, come si sono sviluppate le società e come l'uomo oggi intende la politica.
La civiltà umana ha plagiato la Natura, se un tempo molte cose risultavano essere ancora sconosciute all'uomo antico, configurazioni mentali e culturali che alimentavano il grande bacino dell'ignoto, dell'oscuro, del divino, e per certi versi questo serbatoio di miti, stimolava l'uomo greco a trovare rassicurazione nell'esattezza della misure , delle forme proporzionate in precisi rapporti geometrici di linee, contorni, di elementi architettonici, di templi, ricercando in quei canoni artistici rassicurazione, il mantenimento di un ordine conscio che era un piccolo passo per dominare il caos degli eventi, ciò che era oltre ed apparteneva alla sfera del divino.
Ma poi l'uomo ha desiderato conoscere anche troppo e quell'ignoto, che prima era fuori di lui, si è interiorizzato, l'uomo in quanto tale faticava sempre più a riconoscersi nell'alieno disumano che non era più la Natura antica, in quanto modellata, strutturata, misurata.
Quindi dando uno sguardo verso la civiltà umana lasciando sullo sfondo la Natura, vediamo come la prima abbia avuto sempre un approccio di tipo esplorativo nei confronti della seconda, un approccio di tipo mentale, concettuale, scientifico e tecnico con il risultato però di riuscire a trasformarla quella Natura. Questo sguardo però lo possiamo considerare sotto un'altra prospettiva, di tipo estetico, riscoprendo il piacere, il bello, l'amore, aspetti pure questi facenti parte dell'animo umano, una civiltà che nelle sue vicende storiche non si è fatta sedurre solo dalla pura conoscenza sensibile, ma pure dall'approccio empatico che ogni uomo sin da bambino viene ad avere nei confronti dell'ambiente circostante.
Già Freud si occupava nei suoi libri di come nella civiltà moderna vi sia oramai una costante repressione di molti istinti vitali che ci fanno rendere conto di come il nostro avvicinarci e rapportarci con gli altri non possa essere solo di tipo passivo ma pure attivo. Per esempio considerava il principio di morte, ossia il principio di realtà, quella sorta di senso del dovere che spinge l'uomo a lavorare, produrre, sacrificarsi e sottomettersi, aspetti questi significativi del nostro essere costantemente immersi nella razionalità urbana gerarchizzata nei suoi livelli sociali  e come la neo-psicanalisi americana, ossia la moderna psicanalisi, abbia avuto il demerito di trascurare questi risultati dell'opera freudiana evidenziandone piuttosto gli aspetti terapeutici tendenti a mediare e risolvere in un certo senso quella disparità nel tentativo di trovare conciliazione tra repressione da un lato e desiderio di realizzazione e promozione della propria personalità dall'altro, prediligendo gli aspetti più propriamente scientifici o comunque ortodossi specie nei confronti di altre discipline come la psichiatria.





 A tal proposito Herbert Marcuse nel suo libro “Eros e civiltà”, cercò al contrario di recuperare gli aspetti più propriamente filosofici e storici della psicoanalisi freudiana, evidenziandone non solo l'aspetto biologico, ma pure quello ancestrale, una sorta di ricordo collettivo che l'uomo da sempre mantiene in una sorta di memoria inconscia storica, un ricordo antico ma ancora vivo nella quotidiana lotta per la sopravvivenza, ad esempio noi tendiamo ad avvinghiarci ad una gerarchia sociale che ci da sicurezza attraverso l'ottenimento di conferme che ci fanno sentire inseriti in un dato contesto, salvo poi sentire pure l'indomabile istinto del piacere ossia il desiderio di sottrarci da quegli stessi legami sociali troppo stretti che ci costringono quotidianamente alle routine lavorativa, alla produttività, alla repressione in genere, chiedendoci se alla fine un domani non potremo liberarci da tutto questo. In fondo la tecnologia già da tempo avrebbe dovuto alleggerirci dalla fatica e alleviarci dalle incombenze, attraverso tutte quelle risorse che sono il risultato della scienza e della tecnica, ma allora come è possibile che nella cosiddetta civiltà del benessere l'uomo debba ancora reprimersi?
Qui Marcuse cerca di rimettere al centro l'uomo, non attraverso la conquista dei mezzi di produzione come direbbe un Marx, mantenendo la concezione del lavoro come necessità inevitabile di trasformazione della Natura, ma piuttosto di raggiungere un rapporto diverso con la Natura stessa dove l'uomo possa rincontrarvisi in una maniera finalmente più intima liberandosi dal giogo di quell'eterno masochistico principio di realtà, cioè del dovere, del lavoro, del sacrificio.






In Platone e precisamente nel “Simposio”, celebre dialogo del filosofo dell'antichità, dove i protagonisti, invitati a casa di Agatone, in occasione dei festeggiamenti per l'ultimo successo della rappresentazione tragica del padrone di casa, piuttosto di incedere nelle libagioni che già si protraevano dal giorno prima, decidono ciascuno di dare un contributo a turno attraverso un discorso in onore di Eros, nel tentativo di mettere a fuoco l'importanza di quel dio. Il medico Erissimaco per esempio tra le altre cose asserisce nel testo che:


“Eros è un dio grande e meraviglioso e si estende sia sulle cose umane sia su quelle divine” ( Platone, Il Simposio, 186b – 186c),


più avanti lo stesso continua:


“ Ora se è bello, come Pausania diceva poco fa, concedere i favori alle persone buone ed è brutto concederli alle persone intemperanti, così anche per i corpi, è bello e bisogna concedere i favori alle parti buone e sane di ciascuno di essi (e in questo consiste appunto la medicina), mentre è brutto concedere i favori alle parti cattive e malate, e ad esse bisogna non compiacere se si vuole essere veramente medico.” (186b – 186d). 


Poi Platone per bocca di Erissimaco continua:


“Infatti bisogna saper rendere amiche le parti che nel corpo sono più nemiche, far sì che si amino reciprocamente” (186d – 186e). Poi Platone aggiunge: “Dunque, l'arte della medicina, come ho detto è interamente governata da questo dio, e così anche la ginnastica e l'agricoltura. La musica (…) la musica si trova infatti nelle medesime condizioni di quelle arti, infatti Eraclito afferma che l'Uno in sé discorde, con sé medesimo s'accorda, come l'armonia dell'arco e della lira” (187 a – 187b).


Pausania, che era intervenuto prima di Erissimaco, aveva rilevato che esistono due tipi di amori diversi, quello disdicevole, in quanto orientato verso i mali costumi, vedi ad esempio gli amori strumentali, venduti, a pagamento eccetera, e dall'altra parte pure quelli divini, puri, l'amore disinteressato, muliebre. Al contrario Erissimaco dimostra come alla fine l'uno non possa che ricondursi all'altro, e lo sa bene il medico che seppur deve amare le parti sane del corpo e odiare quelle cattive, deve saper guarire l'ammalato sanando le cattive in un'armonia di organi corporei che devono saper convivere insieme aiutando l'ammalato nel processo di guarigione. Ma c'è di più, l'amore non è solo la molla che rende sano l'ammalato, ma è la spinta essenziale che governa tutte le arti, la ginnastica, l'agricoltura e la musica. E a tal riguardo Platone cita un frammento di Eraclito molto importante in cui si dice che la discordanza dell'Uno si accorda con sé medesimo come l'arco e la Lira. Cioè i due corni separati che costituiscono le estremità di un arco teso, sebbene tendano verso due direzioni affatto diverse tra loro, quando sono vincolate da una corda tesa, esse, divenute un unico inatteso strumento musicale, con una o più corde, come la Lira, che vibrando esprimono un'armonia ineguagliabile, da due elementi discordi torniamo all'Uno armonico, dal due all'Uno o meglio un Uno che sebbene contenga una molteplicità di fattori pure discordanti tra loro, alla fine sempre all'Uno si riconducono, quell'Uno che è l'essere che racchiude ogni cosa, pure noi stessi nel nostro continuo divenire e trasformarci ma sempre all'interno di una molteplicità che si fa Uno armonicamente, come tutti i contrari del resto, come la bontà, la cattiveria, la forza e la debolezza, la prodigalità e l'avarizia.


 Ho preso ad esempio questi segmenti del testo platonico per sottolineare come alla fine l'uomo stesso nella sua spinta che lo proietta continuamente fuori e dentro sé, nel conoscere, nel confrontarsi, nel sentirsi appagato o frustrato come ho riportato sopra attraverso gli scritti di Herbert Marcuse, di Sigmund Freud, come appunto in questo processo che è la vita in tutto il suo divenire in quel cosmo che è l'Universo in tutta la sua unicità e infinità, per lo meno ai nostri occhi di piccoli uomini, l'essere umano non possa che mettere tutto sé stesso cioè il proprio pensiero e la propria corporeità in un unicum di immaginazione, passioni e azioni, nell'amore infinito per la propria esistenza e l'esistenza degli altri, nella Natura e nel Mondo. Di conseguenza io ritengo che all'interno di quell'incredibile mistero che è la vita umana, non abbia significato la ricerca di una purezza solo concettuale, utilizzandola come metro di giudizio per misurare la propria vita all'interno del Mondo, ossia un incedere nel mare magnum della nostra esistenza avendo come bussola tutte quelle costellazioni in cielo che però raffigurano solo punti e linee, certo importantissimi strumenti scientifici, che furono oggetto di studio del grande Euclide, cioè la geometria la matematica, tuttavia noi non possiamo restare prigionieri di una dimensione quantizzata, misurata, i cui parametri, piuttosto che essere inseriti nella Natura del mondo dove non esistono triangoli perfetti, alla fine possono divenire sbarre di una scomoda prigione, di un uomo a cui non viene più riconosciuta la parte più emotiva, quel sé represso di cui parlava Freud, quell'eterno Principio di realtà che non ci lascia spazio e ci lascia inchiodati a quella quotidianità che pretende sempre la propria routine.
Del resto lo ha scritto pure Platone, e lo abbiamo letto, l'amore, Eros che possiamo riferire al Bello, ma pure al Buono, o al Giusto, o all'Esatto, o comunque alla nostra meta che sia noi, come gli animali e le piante, ma financo un elettrone che ruota attorno al suo nucleo, in fondo aspira all'Unione, all'immedesimazione, ad una empatia armonica che fa sì che il cosmo sia quel che sia, governato dalle sue leggi, come è legge l'amore che proviamo per noi e gli altri.




 Quindi ora giungiamo ad un punto cruciale di questa discussione dove è essenziale capire in che rapporto sia il pensiero con il corpo di chi lo pensa, e se è vero come scriveva Aristotele nel De Anima, che l'anima è atto, mentre il corpo è potenza, cioè l'anima è la forma del corpo che ha la vita in potenza, allora è interessante capire il significato di quelle parole, potenza e atto, e la loro relazione in Aristotele.
Quando Aristotele pensava alla materia che inesorabilmente si trasforma, o naturalmente o per mezzo delle mani dell'uomo, aveva in mente un sostrato considerabile come quella materia informe che, iniziando a mutare spinta da cause note o ignote contiene al suo interno già insite potenzialmente quelle avvisaglie che progressivamente diverranno configurazioni ulteriori, effetti che la faranno divenire altro rispetto a ciò che era prima, rispetto alla situazione primigenia, e questo o per la forma acquisita, o per il colore, aspetti che si imprimono nel nostro pensiero che come scriveva Aristotele è la nostra Anima, la nostra Psyché che era ed è pure oggi in grado di distinguere, comprendere. Quindi se vogliamo il problema di fondo può essere quello di capire in che relazione può essere la forma con la materia e la causa che l'ha prodotta con quell'effetto in vista di un fine, se pensiamo alla Natura ciò può dar luogo a molti dibattiti, ossia se le leggi umane della scienza Fisica che governa l'Universo, la sua traduzione matematica e razionale attraverso cui noi uomini cerchiamo di far coincidere l'idea di Mondo con ciò che riteniamo che il mondo sia di per sé, ossia come ad esempio lo potrebbe vedere, misurare, una entità esterna a noi sia spazialmente che temporalmente, una entità extraterrestre, o più semplicemente come lo vedevano i dinosauri o come lo vede un gatto, ossia se quelle leggi appartengano oggettivamente al mondo stesso o siano frutto di considerazioni soggettive che mai potranno aderire veramente con la realtà che di per sé, come direbbe Kant è inconoscibile. Quindi qui si parla di forme che poi, distinte dall'uomo che pensa quelle forme che nomina con attributi diversi, divengono nomi e qui c'è da chiedersi se esse e il pensiero stesso che li veicola possano essere originari e facenti parte dell'Universo indipendentemente dall'uomo, un pensiero preesistente, il pensiero del mondo che come possiamo intuire nella sua infinità non può che avere al suo capo come perfezione un dio se lo intendiamo come entità perfetta che quindi non può non esistere, una sorta di dimostrazione dell'esistenza di Dio.



Qui ora intendo citare un importante filosofo, Spinoza che studiò a lungo il testo sacro, la Bibbia, cercando di capire se il pensiero razionale umano possa esse compatibile con la spiritualità di un fedele che legge la Bibbia, distinguendo la superstizione dalla genuina parola di Dio da valutazioni cabalistiche estranee al reale contenuto spirituale del testo che nulla deve togliere alla razionalità umana, un tentativo insomma di sciogliere le apparenti contraddizioni tra ragione e fede, esse al contrario possono far parte di quell'unico attributo che è il pensiero nei confronti dell'essere di tutto il mondo, l'Universo.





Giordano Bruno ad esempio riprendendo la casualità che ogni corpo in moto riceve nel suo urtarsi e nel caso pure trasformarsi dando vita a nuovi effetti, forme che metamorfosi di precedenti fogge, magari di una stessa materia, in fondo intuì come non si potessero fare vere distinzioni, né tra sostrato e forma, né tra cause ed effetti.
Se noi consideriamo il mondo come un essere (ontologicamente) di cui più che la finitezza o infinitezza ci interessa la sua unicità in tutti i suoi attributi, compreso il pensiero in un incessante divenire, percepiremmo la storia, non solo umana, ma universale, come una sequenza di trasformazioni non finalizzate ad obiettivi prefissati o comunque rispetto a coordinate umane, ma l'evolversi di fenomeni che hanno un legame tra loro a livello assoluto, ossia ben al di sopra di ogni vicenda che ogni uomo, marziano venusiano che sia potrebbe mai considerare.





 Ci fu un poeta, Hölderlin che nella sua poesia rievocava questo forte legame tra il passato e il presente, il classicismo letterario, ma pure artistico greco che in epoca romantica sembrava definitivamente perduto, per lo meno per un Schiller o un Goethe, per il poeta e filosofo Hölderlin, non lo era affatto. Un passato che risorgeva dalle ceneri, come un'araba fenice nelle sue strofe poetiche, versi che parlavano di un incessante sorgere e tramontare della vita, della storia di un uomo, che attende, guarda un cielo vuoto in apparenza, ma pronto ad ospitare un nuovo pantheon celeste. Noi, il nostro Mondo, le generazioni umane periscono, ma nel farlo hanno già al loro interno i germi di una futura rinascita, come diceva Giordano Bruno, vi sono già le premesse per un nuovo sorgere, un nuovo domani. Da questo punto di vista, passato presente e futuro perdono di significato, il presente si condensa, il passato può ripresentarsi bucando trasversalmente la diagonale della storia, che in un certo senso Nietzsche già considerava come eterno ritorno di un presente sempre uguale, che però non sarebbe circolare, ma a spirale.
Ora ci si potrebbe chiedere il perché di simili iperboliche considerazioni, forse perché potrebbe sorgerci il sospetto che l'uomo compia le proprie azioni che si fanno storia nel corso del tempo avendo come stella polare astri ingannevoli, impalcature ideologiche in mondi metafisici e iperuranei, un mondo soggettivizzato dove il pensiero si distingue bene dalla storia, come l'anima dal corpo, in un certo senso è come se l'umanità si fosse costruita una rotaia e che per questo sia destino che essa verrà per sempre percorsa, che in fondo il progresso, l'evoluzione umana sia una retta sempre in ascesa e semmai ogni discesa non possa che essere interpretabile che come un degrado, un imbarbarimento, il passato non ritornerà mai, secondo questa visione, ci sarà solo un futuro che alla fine non potrà che contenere sempre gli stessi valori, una bussola in pratica che non può che segnare sempre il Nord. Al contrario invece, se consideriamo l'Universo come un Unicum di pensiero-mondo-Universo, trasformantesi incessantemente ma senza alcuna rotaia, senza alcuna idea che debba ostinatamente farci da stella polare, ci renderemmo conto che siamo noi a costruirci presente passato e futuro, e che possiamo cambiare tutto ciò in qualsiasi momento. In qualsiasi momento possiamo cambiare il nostro destino, in quanto non esistono destini, ma semmai avvenimenti a cui sappiamo di doverci adeguare, ma che sappiamo pure che si dovranno adeguare a noi. Un'equazione questa che incredibilmente può far risorgere il passato perché non esistono barriere insormontabili se non quelle che ci costruiamo artificialmente, le regole le costruzioni sociali a cui noi volontariamente ci assoggettiamo ma per consuetudine, in quanto vi sarebbero sempre le possibilità per cambiar strada. La politica se la costruiscono gli uomini, come le loro economie, non vi sono sistemi che alla fine non siano pure convenzioni, come quei nomi che diamo alle forme, ma che possiamo cambiare.







L'idea marxiana di materialismo storico, secondo me nasce dai suoi studi giovanili di Spinoza, alla luce di questa linea di pensiero confutò sia il materialismo di Feuerbach, sia l'idealismo di Hegel. Da questo punto di vista, in fondo lo stesso poeta di cui ho scritto sopra, Hölderlin, confutò Fichte, ritenendo che la consapevolezza del mondo che noi abbiamo, di ciò che è esterno, non possa avvenire per coscienza ed autocoscienza, un confronto dialettico che ha l'Uomo con il Mondo, simile per certi versi a quella di Hegel, ciò non è possibile perché la nostra coscienza del mondo risiede nel pensiero e da esso è impossibile arrivare alla materia per lo meno da un punto di vista logico, come del resto è vero l'opposto. Solo concependo un'unione a livello assoluto e superiore a noi e a qualunque essere vivente o meno possiamo trovare una giunzione tra due mondi sì estranei come il pensiero, l'anima e il mondo, Spinoza provò a dimostrare come ad esempio il pensiero possa essere considerato come attributo di quell'essere che è il Mondo nella sua opera l'”Etica”.






In fondo già sin dai tempi di Kant, il problema era conciliare l'empirismo con il razionalismo, ossia se gli effetti di una palla rimbalzante su di un panno verde siano da ascriversi a qualcosa facente parte della palla stessa e non esprimibile attraverso leggi che esulino da quell'evento fisico, o se le leggi matematiche siano da ascriversi a livello puramente astratto e come il cervello sia unito all'uomo solo tramite la sua ghiandola pineale come scrisse Descartes.




Se concepiamo il pensiero come qualcosa che sopravvive all'uomo stesso in fondo ne neghiamo la sua mortalità, le interpretazioni averroistiche di Aristotele furono condannate nelle dispute medievali a cui partecipava tra l'altro San Tommaso, da chi riteneva sacrilego semplicemente pensarlo, e se in fondo ipotizziamo due anime, una universale e una umana, il dilemma resta se quindi la seconda per questo sia mortale.
Ma all'assunto di un legame assoluto che trascende l'uomo stesso, la sua mente, allora tutto cambierebbe, l'uomo potrebbe divenire davvero artefice del proprio destino e riacquistare quel pragmatismo che senza ricorrere a rivoluzioni marxiane, ma semplicemente mettendo in atto sé stesso conscio che nulla è prima di sé o dopo di sé, allora davvero potrebbe cambiare tutto, perforare in un certo senso la Storia, passarci attraverso, quasi che quest'ultima sia come lo spazio curvo di Einsteiniana memoria, una velatezza che potrebbe incredibilmente svelarsi ai nostri occhi.