lunedì 27 luglio 2015

 Tuttavia a questo punto ci sarebbe da pensare se aveva ragione Parmenide o Platone. Il primo asseriva che l'essere concepibile come quel "tutto che ci circonda" e di cui facciamo parte e che esiste, non può non esistere e quindi "non essere". Dire che "l'essere non è" è una contraddizione che però Platone risolve nel suo dialogo "Il Sofista". L'autore ad un certo punto scrive che l'Essere in un certo senso può non essere, ossia non può esistere che la Luna compaia e non compaia allo stesso tempo nel cielo, e questo è il principio fondamentale di ogni logica che si rispetti e su cui l'uomo ha costruito la propria impalcatura scientifica che è il tramite per cui l'uomo può prevedere effetti e conseguenze che anzi per via sperimentale ha imparato a creare lui stesso. Sì quindi l'uomo in una impalcatura metafisica ha proiettato nell'universo quei numeri, l'uno, la monade, l'unicità, il due, la molteplicità.
Quindi quando parliamo di ontologia e di enti facciamo riferimento a singoli aspetti di una realtà che si fonda però su di un sostrato, un essere di cui l'uomo non può percepire la vera portata e qui è da chiedersi se da questo punto di vista il mondo sia una rappresentazione (Schopenhauer) e sotto questa prospettiva non abbia una realtà in sé, un noumeno sconosciuto all'uomo (Kant). Un mondo solo a misura dell'uomo quindi? E cosa percepiamo della realtà, questa è davvero insondabile? Ma altri esseri viventi in questo universo, quali matematiche, quali leggi fisiche costituirebbero loro metafisiche, ulteriori apparenze che sempre tangono la realtà in sé, un essere comunque impercepibile all'uomo?
Quindi alla fine lo stesso problema si ripropone, da un lato ci siamo noi uomini con i nostri processi cognitivi, dall'altra parte c'è l'oggettualità del mondo che ci sta di fronte, e in mezzo resta l'interrogativo di cosa ancora ci sfugge di quel mondo, e ci sfugge ancora molto, allora allunghiamo i telescopi.
La molla insomma sembra essere l'inesauribile curiosità umana che non si accontenta di pensare ad un Dio a priori, ma si sforza di trovare risposte rimanendo in una dimensione intermedia, la matematica ci aiuta in questo e diviene un tramite tra noi e il mondo. I numeri, il calcolo, quella logica platonica che è riuscita a scalzare l'apparente illogicità dell'assunto parmenideo. L'essere può non essere e da ciò scaturiscono leggi che divengono verità e teoremi su cui l'uomo ha costruito quell'impalcatura che oggi l'aiuta a procedere il quel lungo e apparentemente infinito cammino che è la sua scienza.
Inoltre vi è pure uno sguardo ulteriore che possiamo dare al mondo, quello morale. Esistono le azioni del Mondo e quelle dell'uomo. Lassù nel cielo ad anni luce di distanza una intera galassia può collassare su sè stessa, innumerevoli mondi scomparire in un attimo, ed altri formarsi in tempi così dilatati per la nostra limitata concezione temporale che solo calcoli matematici possono misurare per interpretarne la durata. Ma quel che conta del ragionamento è che ad un tratto tutto scompare per tornare sotto altre forme, altri mondi. E vi sono pure le azioni umane. Noi per comodità distinguiamo tra bene e male. Ciò che è bene, come direbbe Kant è ciò che conviene all'uomo tutto sommato in quanto il male, pure da un punto di vista razionale implica caos, morte, disgrazia tragedia. La Tragedia appunto che vede l'Edipo ad un tratto capire, comprendere come erano andate tutte le cose, ma appunto per questo affondare nell'estremo dolore che è pure quello che katarticamente solleva gli spettatori di uno spettacolo tragico di un Sofocle o di un Euripide.
Allora ci potremmo chiedere se davvero il confine tra bene e male, sia dettato più dalla razionalità umana, rispetto alla globalità dell'essere in cui la stessa parola "male" non ha senso. Noi finalizziamo ogni nostra scelta al bene per noi, ed è giusto questo, giammai potremmo preferire il male al bene. Tuttavia uno sguardo a tutto questo solo da un punto di vista razionale non è sufficiente. L'uomo può armarsi di coraggio sostenere la sofferenza elaborando razionalmente ciò che è bene per lui, resistere, salvo poi inevitabilmente scivolare e cadere.
Se leggiamo la poesia "Veglia" di Giuseppe Ungaretti, tratta dalla raccolta l'"Allegria", scorgiamo queste parole: "Un'intera nottata buttato vicino
a un compagno massacrato con la sua bocca digrignata volta al plenilunio...".
La Luna sembra indifferente di fronte alla morte, e al termine della poesia Ungaretti: "Non sono mai stato tanto attaccato alla vita.".







 La sofferenza fa parte della vita, ne è una parte inscindibile e quindi vi è qualcosa di più profondo di una semplice elaborazione razionale della sofferenza, aspetto celebrato pure da un "neo-stoicismo" che poi ha compreso tutti i suoi limiti. Ma vi è un qualcosa in più, la tragedia ci insegna, anche come pura rappresentazione artistica, che paradossalmente proprio nella sofferenza estrema, nell'estremo sacrificio l'uomo nel lampo di un attimo diviene parte partecipe consapevole di quel tutto che è la Natura, l'essere, il Mondo.
E qui tornando ad Hölderlin, vediamo come nel suo "Empedocle", avvenga proprio questo estremo sacrificio, l'uomo si getta nel vulcano e nell'estremo gesto avviene l'unione con il tutto dove il futuro diviene presente e il passato futuro.
Lo stesso Freud attraverso una rielaborazione della sofferenza del paziente vicino allo psicoanalista, attraverso una dolorosa presa di coscienza della propria sofferenza, sembra katarticamente uscire da quello stato di dolore in una compartecipazione con il tutto che lo pone su di un piano diverso, un piano difficile comunque da tollerare per l'uomo che oggi preferisce far sparire il problema attraverso costrutti razionali che se non eliminino per lo meno allontanino quella parola orrenda che è la "morte", difficile da elaborare anche per chi al termine della propria vita deve per forza elaborare.

Da tutto questo però nasce un problema cruciale, se la scienza fatta di leggi teoremi, costrutti matematici che si fanno formule fisiche che descrivono fenomeni naturali e servono all'uomo non solo per comprenderli ma pure per riprodurli, fanno parte o meno dell'essere, davvero esiste una metafisica separata da tutto il resto, un mondo dietro al mondo dove trovare verità certe?
Tornando a Giuseppe Ungaretti dalla sua raccolta di poesie "Porto Sepolto", che verrà racchiusa nella successiva "Allegria", il poeta è proprio colui che si getta nel profondo degli abissi, il quel porto sepolto di origine pre-alessandrina, di quell'Alessandria d'Egitto dove Ungaretti visse la sua infanzia e adolescenza.
In questo scavo nel profondo il poeta va laggiù in quel luogo irraggiungibile, infinito nella sua profondità che costituisce l'animo più intimo del poeta che dopo, come una Sibilla riversa il suo messaggio ovunque per l'umanità.
Ma pure lo scienziato, mentre cerca di verificare un'idea, attraverso ragionamenti induttivi cerca di capire se un dato esperimento dia come risultato effetti che magari si era immaginato precedentemente. Questo immaginare dello scienziato che assomiglia allo scavo poetico di cui prima, riposa nella sua intuizione che qui è da capire se faccia parte dell'aspetto prettamente sperimentale fatto di cause ed effetti; in fondo tutto ciò che ci circonda, l'ambiente, lo spazio è fatto di cause ed effetti che implicano il tempo e il moto per lo meno come noi lo pensiamo guardando l'orologio. La palla si sposta in un tempo che cambia due stati quello precedente e quello conseguente. Tutto questo costituisce la rappresentazione che noi abbiamo del mondo e che di solito è l'Intelletto ad elaborare attraverso le sensazioni. Ma l'intuizione fa parte dell'Intelletto, di questa concatenazione di cause ed effetti o sorge dal più profondo? Lo scienziato ha un'idea, per esempio, il "principio di relatività generale", ma poi deve dimostrare matematicamente che la sua teoria è vera. Lo scienziato raggiunge la verità sì, ma dopo averla immaginata. Vi è un qualcosa di ulteriore che non può scindersi dall'essere in quanto tale, e da ciò che costituisce l'anima diciamo così dello scienziato, non c'è materia senza forma, pensiero senza realtà.
Ma tutto questo ci porta a vedere la metafisica come un qualcosa di unito al tutto. Se noi cementifichiamo il mondo, lo trasformiamo, siamo sempre all'interno di esso, della Natura. Ciò che ci sembra sempre innaturale in realtà è naturale, solo che a noi fa male.
Se un giorno il mondo dovesse distruggersi per causa nostra, lo spazio eterno non farebbe una piega, solo per noi sarebbe un triste destino.
Quindi vediamo che ogni etica, ogni morale, non può perdere di vista l'uomo, in quanto è solo rispetto a noi stessi che possiamo compiere le nostre scelte, e non in confronto agli spazi siderali.
Tuttavia purtroppo la sete di conoscenza umana ha perso di vista l'uomo stesso. La bellezza perfetta del pensiero umano cede il posto alla volontà di costruire l'uomo dal pensiero artificiale perché meglio si adatta a quel tutto degli spazi del tutto infinito spazio siderale, in cui l'uomo in sé perisce, ma ciò perde importanza, perché l'uomo nuovo è artificiale e ben si adatta ad una scienza che purtroppo ha perso di vista l'uomo in quanto tale.

Questo purtroppo è secondo me il punto critico, non tanto la scienza deve lamentare l'oscurantismo del filosofo che protesta, ma il timore di quest'ultimo che ogni uomo e scienza umana che fa capo all'uomo appunto costituisca per lui un pericolo, in primis per la filosofia la quale purtroppo è sempre meno considerata e anzi la si vorrebbe ridotta a rango di scienza, ma non si è capito che le sta in realtà di fronte, scienza è solo una parola, il significato vero è per me ancora insondato, non basta una concatenazione di fatti sebbene continuamente valutati da un'equipe scientifica.

Durante la rivoluzione industriale precedente, un singolo uomo aveva un'idea e poi la sviluppava, vedi Volta, Nikola Tesla. Oggi invece tutto viene organizzato, c'è un gruppo di lavoro che porta avanti un progetto, c'è da chiedersi se non sia il progetto a portare avanti il gruppo di lavoro e il primo purtroppo non è frutto d'intuizione, ma di continuo perseguimento di una strada verso un obiettivo che però perde di significato e da questo punto di vista questa ricerca umana si insabbia. Ma queste ultime sono solo miei pensieri e che il lettore li prenda come tali.

Il pericolo insomma è che l'uomo perda di vista la propria capacità intuitiva e quindi pur essendo parte del tutto che costituisce l'Universo, alla fine se ne distacchi e quindi con ciò venga a confermarsi quello che pensava Hölderlin, man mano che l'uomo estende la sua conoscenza di tutto, perde di vista la conoscenza di sé e diviene ignoto a sé medesimo e per questo ha bisogno di un altro suo simile una proiezione di sé per lui perfetta che gli permetta di restare sintonizzato con un mondo che pian piano gli sfugge.